Dopo oltre un anno di gogna mediatica, è miseramente caduta l’accusa di truffa. Ma i “moralizzatori” che tanto hanno gridato, ora su questo tacciono. E la “macchina del fango” è ancora in moto. Questo linciaggio morale contro tutto l’Istituto di previdenza solo per contestare una riforma che vuole riequilibrare le risorse tra chi ha avuto (tanto) e chi spera di avere qualcosa dopo una vita precaria? Una riforma che, se non fossero i giornalisti a gestirla, sarebbe fatta (in peggio per tutti: anziani e giovani) dal governo

Non era mai successo prima nella storia dell’informazione italiana – e difficilmente succederà in futuro, almeno quello prossimo – che un giornalista riscuotesse il consenso e il riconoscimento di autorevolezza e rettitudine necessari per essere eletto ai massimi livelli negli organismi di rappresentanza delle professioni intellettuali sia in Italia, arrivando anche a interloquire con autorevolezza con il governo fino a contestarne alcune decisioni, sia in Europa, contribuendo anche a indirizzare atti dell’Unione europea a favore, per citare un esempio, delle “mini-partite Iva”. Il “miracolo”, a favore di una categoria professionale incapace di fare lobby perché preda di forti individualismi e in caduta libera nella considerazione dell’opinione pubblica, lo ha potuto compiere solo un giornalista con la competenza e la dedizione al lavoro di Andrea Camporese.

Poi capita, come talvolta succede nel nostro Paese, che il nome di chi arriva a giocare un ruolo di primo piano venga citato in un filone marginale di un’inchiesta della magistratura che interessa ben altre e più grandi vicende. Tanto basta per scatenare una gogna mediatica senza precedenti. E senza che lo stesso interessato abbia avuto neanche l’opportunità di venire messo a conoscenza degli atti di indagine. Una gogna che, guarda caso in coincidenza con il prossimo avvio di una campagna elettorale per il rinnovo delle cariche all’Inpgi, una volta partita si autoalimenta con affermazioni apodittiche e manipolazioni di cifre, numeri e circostanze, arrivando a coinvolgere tutti, compresi i dipendenti dell’Istituto.

È doveroso il massimo rispetto per chi ha l’obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale. Come è dovere di chi è titolare di tale azione arrivare a provare la validità degli assunti che sono alla base delle sue ipotesi. Che, in quanto ipotesi, sono l’espressione di un lavoro unilaterale che deve dimostrare la validità degli assunti di partenza nel contraddittorio delle parti e di fronte a un giudice terzo. Al cospetto del quale non si è ancora arrivati. Quindi, ipotesi e assunti rimangono tali.

Non è degna di considerazione e rispetto, invece, l’azione di chi cerca di far passare gli assunti e le ipotesi per fatti accertati. E lo fa per perseguire altri fini, in altro modo legittimi, di contrasto con le idee e il lavoro di chi, come Andrea, amministra un Ente di interesse pubblico. E lo fa anche per opporsi – legittimo anche questo, ma odioso il metodo strumentale – a una riforma dell’Istituto di previdenza dei giornalisti.

Una riforma che, se non venisse fatta con responsabilità e coscienza dal presidente e dal Consiglio di amministrazione uscenti, tutelando l’autonomia della professione e la superiorità delle prestazioni rispetto a quelle dell’Assicurazione generale obbligatoria, verrebbe fatta d’autorità dal governo. Un presidente e un Consiglio di amministrazione uscenti che, similmente ai propri detrattori, facessero solo “politica” (tra virgolette e con la lettera rigorosamente minuscola) avrebbero certamente, a pochi mesi dalle elezioni, scaricato sui propri successori la responsabilità di fare la riforma o di rischiare il commissariamento ”ad acta” da parte del governo. Un presidente come Andrea Camporese e un Consiglio di amministrazione come l’attuale, no: non fanno vuota “politica” e si assumono fino all’ultimo giorno la responsabilità assegnata loro, per salvaguardare l’autonomia della professione e le prestazioni di maggior favore rispetto al sistema generale.

Ma di tutte queste cose – del peso reale degli assunti e delle ipotesi accusatorie e del senso di responsabilità di presidente e amministratori – i “moralizzatori” detrattori dell’Inpgi non parlano alle colleghe e ai colleghi a cui si rivolgono.

È una forma di “informazione a metà”, che rivolge l’attenzione solo ai particolari che destano interesse ai fini del sostegno di una tesi e li interpreta invece di analizzare l’intero panorama dei fatti. È l’informazione a metà che tace colpevolmente e non si interroga sul perché, dopo oltre un anno di azione della “macchina del fango”, l’accusa per la quale Andrea Camporese per tutto questo tempo è stato messo sulla graticola, quella di truffa ai danni dell’Inpgi, è di fatto caduta. E non poteva essere altrimenti, vista l’inconsistenza e la illogicità di una ipotesi che si è frantumata di fronte all’evidenza della corretta amministrazione operata da Andrea, dai consiglieri d’amministrazione dell’Inpgi che si sono succeduti nel tempo e dalla struttura amministrativa dell’Ente, che ha portato ad oltre 500 milioni di euro di rendimenti negli ultimi otto anni.

Quindi, per oltre un anno una persona che svolge con dedizione e correttezza il proprio incarico è stata oggetto di uno sciacallaggio mediatico sulla base di una ipotesi di un pubblico ministero che ha dovuto fare marcia indietro, perché i suoi assunti si sono dimostrati non veritieri. E questo è un fatto.

Dopo oltre un anno di indagini che non hanno potuto dimostrare la validità degli assunti di partenza, invece di prendere atto della limpidezza della persona accusata si cambia, da un momento all’altro, l’accusa. E a Camporese ora si imputa di aver incassato denari in maniera non lecita attraverso la vendita di una casa. Casa che però non è mai stata venduta. E questo è un altro fatto.

Ma la “informazione a metà” non fa più sentire la propria voce, con altrettanto impeto come per le accuse ossessivamente ripetute per oltre un anno, su questi fatti, i quali indicano che il lavoro di indagine arriva a dimostrare l’insussistenza di quelle che erano le ipotesi di accusa.

È la stessa “informazione a metà” che abbiamo visto, purtroppo, nel passato più o meno recente: che accusa acriticamente a voce alta e tace quando si dimostra l’inconsistenza di tali accuse.

È l’informazione a metà che si è vista all’opera, tanto per ricordare un caso clamoroso del passato, nella vicenda del “Dossier Mitrokhin”, che ha devastato la vita di tanti, fra i quali anche diversi colleghi giornalisti, messi pubblicamente alla gogna. Per poi veder arrivare – per due di loro purtroppo solo postuma – la dichiarazione di assoluta inconsistenza delle accuse. Senza però la stessa eco mediatica riservata alla costruzione della gogna pubblica.

Un’informazione a metà che non ha smesso di essere usata anche in tempi recenti. Ne sa qualcosa Vasco Errani, l’ex presidente della Regione Emilia Romagna, oggetto di una campagna mediatica, alimentata dai condivisori compulsivi da social network tanto attivi ai giorni nostri, per accuse alle quali, alla fine del percorso giudiziario, è risultato estraneo. Ma dopo aver rassegnato le dimissioni dal suo incarico e dal suo partito, sull’onda dell’indignazione di una Rete che aveva già espresso la sua condanna. Incarico e attività politica che avrebbe avuto il diritto di continuare ad esercitare, essendo estraneo ai fatti contestatigli. Non risulta che i “moralizzatori” abbiano ancora riconosciuto i propri errori e il diritto che aveva Errani di esercitare il suo ruolo, che nessuno potrà mai restituirgli.

Solo al termine di una laboriosa inchiesta, condotta seguendo una unica tesi accusatoria, e anzi solo al momento della sua conclusione, all’improvviso e senza alcun atto precedente l’accusa cambia. E’ legittimo pensare che questo stia a significare l’inconsistenza dell’assunto di origine? E’ legittimo sostenere che solo in virtù di questo improvviso cambiamento sia stato possibile continuare a sostenere l’accusa? E’ legittimo lamentare che non ci sia stata nessuna lettura critica di questo modo di procedere? Siamo in uno Stato di diritto dove la giustizia è amministrata in nome del popolo, secondo determinate procedure e nelle sedi a ciò deputate, e in cui ognuno ha diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni. Non mi risulta che in questo Paese viga un pensiero unico, patrimonio di chi urla di più, e che i processi vengano celebrati e le condanne irrogate per via telematica.

No, di questa “informazione a metà” e di questi “giudici da web” non ne abbiamo proprio bisogno.

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